Amo Charlie Kaufman come sceneggiatore dei film di Jonze e Gondry. Faccio però fatica con i suoi film. Sto pensando di finirla qui non fa eccezione, anche se raggiunge delle vette di lirismo impressionanti.
Come per esempio la poesia recitata da Jessie Buckley, mentre è in macchina, sotto la neve sulla strada verso casa dei genitori del fidanzato, che non ha ancora conosciuto. Proprio quando sta pensando di finirla qui con lui.
Ovvero una poesia che spiega come sogno la vecchiaia. Nell’ordine: avere un amore durato così a lungo, non aver bisogno di parlare, avere una veranda.
Siedono insieme sulla veranda, il buio quasi sceso, la casa dietro di loro, buia. La cena finita, hanno lavato e asciugato i piatti – solo due adesso e due bicchieri, due coltelli, due forchette, due cucchiai – poco da fare per due.
Lei siede con le mani ripiegate sul grembo, si riposa. Lui fuma la pipa. Non parlano, e quando alla fine parlano è per dire ciò che l’uno sa che sa anche l’altra. Ora hanno una mente in due che infine, per quante ne sappia, non saprà esattamente chi prenderà per primo la porta buia, dando la buonanotte e chi rimarrà a seder da solo ancora un po’.
È bastato l’incipit per farmi capire che Febbre mi avrebbe divorato. Perché l’esordio di Jonathan Bazzi, oltre a essere una sorta di autoetnografia che tiene insieme le molte identità dell’autore, è caratterizzato da un lirismo molto intenso.
Esplorate l’inizio del romanzo: per ogni frase un’unica riga. Così le emozioni, i sentimenti e le sensazioni provocati dall’evento chiave dell’autobiografia appaiono più vividi e concreti.
Febbre, romanzo autobiografico di Jonathan Bazzi, si divide tra due linee temporali: il passato dell’autore a Rozzano e il racconto della sua malattia nel presente.
Jonathan Bazzi è (tra le tante cose) una persona omosessuale, nata e cresciuta in uno di quei centri che affollano l’hinterland di grandi città come Milano e Torino. Sono paesi vicini eppure lontani dalle grandi metropoli, spesso privi di opportunità culturali.
Sono posti dove incarnazioni di stereotipi maschili e femminili affollano le strade e le case popolari.
Penso che molte persone, nate e cresciute ai bordi di questi centri economici, culturali e industriali, colgano delle corrispondenze tra la loro storia e la descrizione che Jonathan Bazzi fa di Rozzano in Febbre.
Tra le tante cose in cui DeLillo è un dio della letteratura c’è la capacità di far parlare i propri personaggi in modo merviglioso. Questo dialogo, per esempio avviene tra Nick Shay, protagonista di Underworld, e la moglie Marian. I due coniugi, reduci da una giornata molto stancante cominciata con un volo in mongolfiera, si scambiano i pensieri prima di addormentarsi.
È una situazione capitata anche a voi, probabilmente, quella di parlare con qualcuno quando si è molto stanchi, senza riuscire a seguire un filo del ragionamento. Ecco, il dialogo di Underworld che state per leggere riproduce magistralmente una situazione di questo genere.
Long Tall Sally è una canzone di Little Richard del 1957 evocata nella prima parte di Underworld. La prima parte del romanzo porta proprio il nome di questa canzone.
Il motivo è questo. Klara Sax, artista che sta ridipingendo vecchi aerei militari nel deserto, ad un tratto si sofferma su uno di essi, sulla cui fusoliera c’è il dipinto di una ragazza e il suo nome: Long Tall Sally.
È un’opera di nose art, ovvero un disegno realizzato con lo spray che permetteva agli aviatori di personalizzare la propria macchina.
Il primo capitolo di Underworld di Don Delillo ha come io narrante una pallina da baseball durante la finale della National League del 1951 . È un derby newyorchese tra Dodgers e Giants, vinto da questi ultimi grazie a un fuoricampo di Bobby Thomson. Il suo gesto è stato soprannominato The Shot Heard ‘Round The World.
Provate a immaginare questa pallina che schizza da una parte all’altra del Polo Ground, “inquadrando” persone sedute in diversi punti dello stadio: da Frank Sinatra a Cotter, il ragazzino che riesce a impossessarsi dell’oggetto finito sugli spalti.
Vi sembra un modo cervellotico di raccontare una storia? Avete completamente ragione. Bisogna però dire che DeLillo fa capire fin da subito al lettore che troverà duro. Infatti, oltre alla pallina (e come in altri romanzi postmoderni come Infinite Jest e 2666) la storia rimbalza tra un punto di vista e un altro.
In Underworld c’è però un personaggio e io-narrante che potrebbe essere il protagonista. Si chiama Nick Shay ed è l’unico a raccontare in prima persona. Detto questo, non è facile seguire il suo flusso di coscienza. Per esempio, nella prima parte del romanzo, Long Tall Sally, mi ha dato l’impressione di essere in procinto di addormentarsi mentre narra la sua storia.
2666 si conclude con la biografia di Arcimboldi, lo scrittore misterioso sulle cui tracce si mettono i quattro critici.
Anticipare qualche contenuto di quest’ultima parte sarebbe davvero un delitto perché, dopo una maratona di diverse centinaia di pagine e personaggi, bisogna godersi la vita di Arcimboldi, l’autore di romanzi con una vita da romanzo come Bolaño, senza spoiler.
L’unico estratto che vi lascio da questo libro è laterale alla storia ed è la descrizione di un quadro, Il cuoco del pittore Arcimboldo, che il protagonista trova in un quaderno nascosto dentro un’isba
Se nei primi tre libri i personaggi più ricorrenti sono persone o gruppi di persone, nella Parte dei Delitti la protagonista è la città di Santa Teresa, un luogo immaginario al confine tra il Messico e gli Stati Uniti.
In realtà Santa Teresa è una Ciudad de Juàrez camuffata. Entrambe infatti sono caratterizzate da un numero impressionate di femminicidi e il libro è per la maggior parte del tempo una carrellata di donne ritrovate morte, stuprate, mutilate.
L’inizio della Parte dei Delitti
La morta fu ritrovata in un piccolo appezzamento di terreno abbandonato nel quartiere Las Flores. Indossava una maglietta bianca a maniche lunghe e una gonna gialla al ginocchio, di una taglia più grande. La scoprirono dei bambini giocando, e avvisarono i genitori. La madre di uno di loro telefonò alla polizia, che giunse sul posto nel giro di mezz’ora.[…]
Questo accadde nel 1993. Nel gennaio del 1993. Fu a partire da quella vittima che si cominciarono a contare le donne assassinate. Ma è probabile che ce ne fossero state altre. La prima fu Esperanza Gómez Saldaña e aveva tredici anni. Ma è probabile che non fosse la prima. Forse era in cima alla lista per comodità, perché fu la prima a essere assassinata nel 1993. Ma nel 1992 ne erano sicuramente morte altre. Altre che erano rimaste fuori dalla lista o che nessuno aveva mai ritrovato, sepolte in fosse comuni in mezzo al deserto o bruciate e le loro ceneri disperse nel cuore della notte, quando neppure chi le disperde sa bene dove, in che posto si trova.