Fredric Brown, gli alieni e la diversità

Una premessa, sto attingendo a piene mani dalla raccolta Le Meraviglie del Possibile, curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero.

Al suo interno ci sono 29 racconti di fantascienza, uno più bello dell’altro, e pressoché tutti i più grandi autori del genere sono rappresentati. Nella raccolta vengono sviluppati diversi temi: dalla tecnologia, agli alieni, passando per distopie di diverso tipo.

In questo articolo vi propongo un racconto molto breve e molto famoso di Fredric Brown, La Sentinella, e un estratto di un altra opera, Il Duello, sempre dello stesso autore. In entrambi gli alieni sono uno spunto per parlare di diversità.

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Annientamento: la dissoluzione dei sensi

In questo romanzo le forme della vita cambiano in continuazione trasformandosi in qualcosa di innaturale. Responsabile di ciò è qualcosa con cui la protagonista viene a contatto nel capitolo finale di Annientamento: Dissoluzione.

Queste pagine sono forse le migliori del libro perché Jeff VanderMeer riesce a rendere la completa dissoluzione dei sensi attraverso numerose sinestesie e ossimori. Per esempio, il suono è un crescendo di giaccio oppure il sapore di brina bruciata.

Ecco un estratto del capitolo “Dissoluzione”, che ha al centro l’incontro della protagonista con l’entità che opera queste trasformazioni.

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Annientamento: la torre che respira

Annientamento di Jeff VanderMeer, è un libro di fantascienza molto nerd da cui è stato tratto un film mediocre. Quattro scienziate sono in missione in una zona misteriosa e pericolosa e, appena raggiunta l’area X, scendono in una torre che presenta caratteristiche davvero particolari.

La protagonista e narratrice, una biologa, è la prima ad accorgersi che in realtà la torre non è ciò che sembra

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Incipit di La città senza nome

La città Senza Nome è il primo racconto di Lovecraft in cui viene citato Abdul Alhazred, l’autore immaginario del libro leggendario chiamato Necronomicon. L’incipit di questa breve storia sembra scolpito nel deserto e, in una manciata di parole, scava profonde fondamenta per l’epica fantascientifica di Lovecraft.

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Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood

Grazie alla serie televisiva, Il racconto dell’ancella è una storia distopica molto famosa, che parla di un mondo in cui le donne sono sottomesse e il sesso non procreativo è vietato (compresa la masturbazione).

La protagonista del romanzo è un’ancella, ovvero una serva che ha come compito principale quello di essere ingravidata da uno dei generali della Repubblica di Galaad, il luogo dove è ambientata la storia.

Il romanzo sembra prendere a scalpellate il lettore attraverso la sua sintassi: frasi brevi, paratattiche, che restituiscono la sensazione che l’ancella parli in fretta e di nascosto. Tutto il libro si basa proprio sul senso di oppressione che può essere eluso solo dal monologo interiore della donna. In questo estratto, per esempio, la protagonista incontra dei turisti e immediatamente fantastica su ciò che ha perso. Buona lettura

Un gruppo di persone sta venendo verso di noi. Sono turisti, vengono dal Giappone pare, forse è una delegazione commerciale, in visita ai reperti storici o in cerca di colore locale. Sono minuscoli e ben fatti; sia gli uomini che le donne hanno la propria macchina fotografica, sia gli uomini che le donne il proprio sorriso. Si guardano intorno, con gli occhi vivaci, piegando il capo da un lato come pettirossi, aggressivi nella loro stessa allegria, e non posso fare a meno di fissarli con curiosità. È da molto tempo che non vedo donne indossare gonne così corte, scendono appena oltre le ginocchia e le gambe sgusciano da sotto, quasi nude nelle loro calze sottili; le scarpe hanno i tacchi alti con dei cinturini fissati ai piedi come delicati strumenti di tortura. Le donne ondeggiano sui tacchi a spillo come su trampoli, sbilanciate; hanno il capo scoperto, e i capelli mostrano tutta la loro cupa sessualità. Portano un rossetto color carminio, che sottolinea le umide cavità della bocca, come gli scarabocchi sulle pareti dei gabinetti nel tempo addietro.

Smetto di camminare. Diglen si ferma, accanto a me, e so che neanche lei riesce a distogliere gli occhi da quelle donne. Siamo affascinate, ma anche disgustate. Paiono svestite. Ci è voluto poco tempo per mutare parere, su cose come queste. Poi penso: anch’io mi vestivo così. Così era la libertà. Si chiamava moda occidentale.
I turisti giapponesi vengono verso di noi, cinguettanti, e noi distogliamo il capo troppo tardi: ci hanno viste in faccia. C’è un interprete, nel suo abito blu, con la cravatta a disegni rossi e la spilla. Si fa avanti, fuori dal gruppo, e ci blocca la strada. I turisti fanno capannello dietro di lui: uno di loro alza la macchina fotografica.
«Scusatemi» dice l’interprete rivolto a noi due, abbastanza educatamente. «Stanno chiedendo se possono fotografarvi».
Guardo in basso il marciapiede, scuoto il capo per dire No. Loro non devono vedere altro che le alette bianche, un tratto del viso, il mento e parte della bocca. Gli occhi no. Mi trattengo dal guardare l’interprete, perché si dice che quasi tutti facciano parte degli Occhi. Mi trattengo anche dal rispondere Sì. La modestia è nell’invisibilità, diceva Zia Lydia. Non scordatelo. Essere viste, viste (la voce le tremava), è essere penetrate. Voi ragazze, dovete essere impenetrabili.

Ci chiamava ragazze.

Accanto a me, anche Diglen sta in silenzio. Si è infilata le mani rossoguantate dentro le maniche, per nasconderle.

L’interprete si volta verso il gruppo dei giapponesi, parla con loro scandendo le parole. So quello che dirà, l’ho già sentito altre volte. Dirà loro che qui le donne hanno costumi diversi, che fissarle attraverso le lenti di una macchina fotografica equivarrebbe per loro a un atto di violenza.
Guardo in basso, sul marciapiede, attratta dai piedi delle donne. Una indossa sandali aperti in punta, ha le unghie dipinte di rosa. Ricordo l’odore dello smalto, che si arricciava quando ci si dava la seconda mano troppo presto, la pressione del collant liscio e aderente sulla pelle, la sensazione delle dita dei piedi spinte verso l’apertura dei sandali da tutto il peso del corpo. La donna con le unghie smaltate si appoggia prima su un piede poi sull’altro. Vorrei mettermi quei sandali, me li sento addosso. L’odore dello smalto dalle unghie mi ha dato una sensazione di avidità.

«Scusatemi» dice nuovamente l’interprete, per richiamare la nostra attenzione. Io annuisco, per mostrare di averlo sentito. «Chiede se siete felici». Posso immaginare la loro curiosità: Sono felici? Come possono essere felici? Fissano i loro brillanti occhi neri su di noi; si sporgono in avanti per afferrare le nostre risposte, specialmente le donne, ma anche gli uomini: siamo segrete, proibite, li eccitiamo.
Diglen non dice niente. C’è un attimo di silenzio. Ma talvolta è pericoloso non parlare.
«Sì, siamo molto felici» mormoro.
Che altro potrei dire?

Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella

L’Isola dei senza memoria, la scomparsa delle rose

Ho conosciuto L’isola dei senza memoria grazie all’iniziativa di Il Saggiatore durante l’emergenza COVID-19. È un libro distopico scritto da Yoko Ogawa, una donna. Di solito non me ne frega nulla del genere dell’autore ma tutto il romanzo, come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, trasmette una cura e un senso del dettaglio che, nella mia esperienza, ho incontrato solo nelle donne che ho conosciuto.

La storia si basa su un’idea davvero affascinante: esiste un’isola dove periodicamente scompare qualcosa dalla memoria dei suoi abitanti (il profumo, i traghetti, gli smeraldi, gli uccelli, etc). Questa forma di vuoto sembra espandersi in modo inesorabile tra le vite delle persone, che sono controllate costantemente dalla polizia segreta. La protagonista, una scrittrice, decide di mettere in atto una piccola forma di resistenza a questa situazione aiutando un amico che non riesce a dimenticare le cose sparite.

Dopo aver mangiato tutti i panini che avevo scaldato, seguii il rumore dei passi e andai ad aprire una finestra che dava a nord. Si erano raccolti lì l’ex cappellaio, la coppia scontrosa che abitava accanto, il cane a macchie marroni e dei bambini con la cartella sulle spalle. Scrutavano tutti il fiume senza parlare.
In realtà, era fin troppo strano, e anche bello, per definirlo fiume. E pensare che fino al giorno prima era un banale corso d’acqua, nel quale al massimo, a volte, si potevano vedere affiorare le pinne dorsali di qualche carassio.
Mi sporsi dalla finestra e sbattei più volte le palpebre. La superficie dell’acqua era completamente coperta da piccoli frammenti di un colore impossibile da definire con una sola parola: rosso, rosa, bianco. Non restava il benché minimo spazio libero. Quei frammenti – a guardarli dall’alto – sembravano qualcosa di morbido –, sovrapponendosi e inseguendosi, si muovevano a una velocità di gran lunga minore rispetto al normale flusso del fiume.
Scesi di corsa nel sotterraneo e uscii nel lavatoio dove avevo accolto la famiglia Inui. Era il posto da cui potevo osservare il fiume più da vicino.
Quell’angolino pavimentato lì fuori era freddo e ruvido. Negli interstizi tra le mattonelle era cresciuto del trifoglio. Proprio di fronte ai miei piedi, scorreva lo strano flusso. Mi inginocchiai, immersi entrambe le mani nella corrente e ne raccolsi un po’: i miei palmi erano completamente coperti di petali di rosa.
«È meraviglioso!»
L’ex cappellaio mi si era rivolto dall’altra riva.
«Davvero!»
Anche gli altri annuirono tutti. I bambini inseguivano il flusso della corrente, con le cartelle che sbattevano rumorosamente sulle spalle.
«Filate a scuola!» gridò loro l’uomo.
Nessuno dei petali era ancora avvizzito. Anzi, bagnati dall’acqua fredda, apparivano ancora più freschi e brillanti di quando formavano le rose. E il loro profumo, disciolto nella foschia mattutina, si diffondeva verso l’alto, quasi soffocante.
Era tutto petali di rosa, a perdita d’occhio. Solo nel punto in cui li avevo raccolti, per un istante la superficie dell’acqua aveva fatto capolino, ma subito i petali di rosa vi si erano assiepati di nuovo. Uno dietro l’altro sembravano essere risucchiati in mare sotto l’effetto di un sonno ipnotico.
Rimisi nel fiume i petali che mi si erano attaccati alle mani. Ce n’erano di tanti tipi diversi: con un’estremità arricciata come un volant, di colore sbiadito, di colore intenso, ancora attaccati al calice… Per un po’ rimasero incastrati ai mattoni del lavatoio, ma alla fine furono di nuovo inghiottiti dalla corrente, e non si distinguevano più dagli altri.
Mi lavai il viso, misi solo la crema e, senza truccarmi, uscii fuori con un cappotto sulle spalle. Pensavo di risalire il fiume e andare a vedere il roseto sul versante sud della collina.
Sulle sponde si erano radunate molte persone per assistere a quello splendido fenomeno. Anche i membri della polizia segreta erano più del solito. Come sempre avevano armi appese ai fianchi e stavano in piedi, privi di espressione.
I bambini sembravano ormai incontenibili: lanciavano sassi, rimestavano i petali con lunghi bastoni trovati chissà dove. Tuttavia, il flusso non era turbato da quelle piccole marachelle. Qualche banco di sabbia o qualche palo piantato qua e là non costituivano affatto un intralcio al cospetto dell’impressionante quantità di petali: sembrava potessero avvolgerti come una morbida coperta, se ti ci fossi coricata.
«E chi se lo aspettava!»
««Una scomparsa così magnifica non si è mai vista!»
«Scatto qualche foto?»
«Lascia perdere, a che serve scattare foto a cose scomparse?»
«Be’, in effetti…»
Per non provocare la polizia segreta, gli adulti parlavano bisbigliando.
A parte il panettiere, i negozi erano ancora quasi tutti chiusi. Pensai di andare a vedere cosa fosse accaduto alle rose del fioraio, ma la saracinesca era abbassata. Gli autobus e i tram erano vuoti. Il sole faceva pian piano capolino tra le nubi e, nello stesso tempo, la foschia mattutina si assottigliava sempre più, ma il profumo rimaneva immutato.
Come avevo immaginato, nel roseto non era rimasta una sola rosa. I rami, ormai tutti spine e foglie, erano conficcati sul pendio come ossa rinsecchite. Ogni tanto, dalla cima della collina – dalle parti dell’osservatorio ornitologico –, scendeva il vento e trasportava verso il fiume i petali rimasti a terra. In quei momenti le foglie e i rami vibravano.
Non si vedeva nessuno: né la signorina troppo truccata che stava sempre all’accoglienza, né gli addetti alla cura delle piante, né, ovviamente, i visitatori. Dopo un momento di esitazione, in cui mi chiesi se dovessi pagare il biglietto d’ingresso, attraversai semplicemente il cancello e camminai sul sentiero in pendenza, seguendo le frecce del percorso di visita.
I pochi fiori piantati che non fossero rose – campanule, cactus di Natale e genziane giapponesi – stavano bene. Fiorivano in silenzio, con aria mortificata. Sembrava che il vento avesse scelto solo le rose per spargerne i petali.
Il roseto senza rose aveva un aspetto spoglio e insignificante. Stringeva ancora di più il cuore vedere i segni lasciati dalla cura delle piante, come il posizionamento di stecche di sostegno e lo spargimento del concime. La terra ben nutrita produceva un rumore morbido. Fin lì non giungeva il frastuono dalla riva del fiume. Affondai le mani nelle tasche e camminai per la collina con la sensazione di essermi persa in un cimitero di ignoti.
Mi accorsi però che, pur fissando intensamente le spine, le foglie e i rami, e leggendo i cartelli che spiegavano le varie specie, non riuscivo a ricordare la forma delle rose.