Il primo capitolo di Underworld di Don Delillo ha come io narrante una pallina da baseball durante la finale della National League del 1951 . È un derby newyorchese tra Dodgers e Giants, vinto da questi ultimi grazie a un fuoricampo di Bobby Thomson. Il suo gesto è stato soprannominato The Shot Heard ‘Round The World.
Provate a immaginare questa pallina che schizza da una parte all’altra del Polo Ground, “inquadrando” persone sedute in diversi punti dello stadio: da Frank Sinatra a Cotter, il ragazzino che riesce a impossessarsi dell’oggetto finito sugli spalti.
Vi sembra un modo cervellotico di raccontare una storia? Avete completamente ragione. Bisogna però dire che DeLillo fa capire fin da subito al lettore che troverà duro. Infatti, oltre alla pallina (e come in altri romanzi postmoderni come Infinite Jest e 2666) la storia rimbalza tra un punto di vista e un altro.
In Underworld c’è però un personaggio e io-narrante che potrebbe essere il protagonista. Si chiama Nick Shay ed è l’unico a raccontare in prima persona. Detto questo, non è facile seguire il suo flusso di coscienza. Per esempio, nella prima parte del romanzo, Long Tall Sally, mi ha dato l’impressione di essere in procinto di addormentarsi mentre narra la sua storia.
Il flusso di coscienza di Nick Shay: un io-narrante di Underworld
Come potete notare leggendo questo breve passaggio, ad ogni paragrafo, Nick Shay cambia completamente argomento, spostandosi tra il suo lavoro, il figlio Jeff, la madre, il ricordo del padre e lo strumento che usa per misurare il ritmo della sua andatura mentre corre.
Tenevamo in serbo una cassa di acqua frizzante al suo aroma preferito e l’avevamo sistemata in una stanza tranquilla, la vecchia camera di Lainie, con lo specchio restaurato e il televisore con lo schermo grande.
Non ci volle molto prima che Jeff smettesse di portare gli short sformati e il berretto alla rovescia e ricominciasse ad assomigliare a se stesso. Il suo computer aveva una funzione multimediale che gli consentiva di guardare una copia del famoso videotape dell’automobilista ucciso a colpi di pistola dal Texas Highway Killer. Jeff si concentrava su queste immagini, valendosi di una serie di programmi e di tecniche di filtraggio per ripulire lo sfondo. Cercava possibili informazioni andate perdute. Accelerava e rallentava al massimo l’immagine, cercando di trovare in quello sciame di dati un pixel che gli fornisse qualche indizio sull’identità dell’assassino.
Lo strumento pesava solo un centinaio di grammi e indicava la distanza percorsa, le calorie bruciate e persino la lunghezza della mia falcata – agganciato alla fascia dei pantaloni corti.
Avevo undici anni quando lui uscì a comprare le sigarette, in una serata calda con la gente che giocava a pinnacolo nel circolo che dava sulla strada e voci radiofoniche dappertutto, c’è sempre qualcuno che ascolta la radio, e lo portarono via, dalle parti di Orchard Beach, dove la costa è disseminata di piccole baie remote, e lo buttarono giù all’inferno, il corpo sospeso sopra le alghe di scoglio, nella molle feccia organica. Non che io ricordi veramente che tempo facesse, o i giocatori di carte. C’è sempre una radio e qualcuno che gioca a carte.
A casa nostra volevamo una spazzatura pulita, sana e sicura. Sciacquavamo le bottiglie vecchie e le mettevamo negli appositi bidoni. Toglievamo doverosamente la carta frusciante dalle scatole di cereali. Era come preparare un faraone per la morte e la sepoltura. Volevamo fare le piccole cose per bene.
Non segnava mai una cifra sulla carta. Era portato per i numeri, aveva memoria per i numeri.
L’avevamo sistemata con l’umidificatore, le grucce, un buon letto duro e il cassettone appartenuto a Marian adolescente, un bel mobile con una storia alle spalle.
Nella torre bronzea guardavo le colline color terra d’ombra fuori dalla finestra e mi sentivo rassicurato e ben protetto, sicuro nel mio ufficio, con la camicia bianca pulita, collegato a cose che mi rendevano più forte.
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