The Last Of Us Part 2, gameplay e io narrante

Un primo piano di Abby, il personaggio "cattivo" di The Last Of Us Part 2

Sono molti ormai i libri che raccontano storie dal punto di vista di numerosi io-narranti. Questa tecnica si trova sia nei mattoni postmoderni in cui un branco di voci assale e stordisce il lettore, sia nei prodotti più commerciali. Per questo motivo il pubblico più esperto è abituato ad incontrare diversi narratori nello stesso romanzo.

Nei videogiochi è più complicato. Esistono infatti molti titoli action che puntano in prevalenza sullo sviluppo di una trama in modo classico e il gameplay, per quanto divertente, è ancillare alla storia. Metal Gear Solid, Uncharted, Red Dead Redemption II sono solo alcuni esempi di questo genere videoludico.

The Last Of Us e la ridefinizione di un canone narrativo per i videogame

Ovviamente tra i titoli action c’è The Last Of Us di Naughty Dog, che nel 2013 determinò uno nuovo standard per gli action.

La storia di The Last Of Us è semplice. In un’America devastata da un’apocalisse zombie Joel, contrabbandiere che ha perso la figlia all’inizio della pandemia, accetta di accompagnare Ellie, una bambina immune a questo fungo infetto, a Salt Lake City per fare in modo che venga creato un vaccino. Tuttavia, quando l’uomo completa la sua missione si trova davanti a un dilemma: la vita di una persona o la salvezza dell’umanità.

I giocatori della scorsa generazione di console gridarono al miracolo davanti a questo titolo per almeno due motivi: il comparto grafico che spremeva al massimo la Playstation 3 e il bilanciamento perfetto tra gameplay e sviluppo della storia. In particolare, portarsi dietro per una ventina di ore una bambina come NPC con sullo sfondo un mondo devastato era, da un punto di visto della costruzione della trama, il vero colpo di genio. Tuttavia, da un punto di vista della narrativa si restava sugli stessi binari di un format collaudato da due decenni. In altre parole con The Last Of Us portarono l’impianto narrativo classico degli action a un livello così vicino alla perfezione da renderlo irripetibile.

Il secondo capitolo è un esperimento narrativo

Sette anni dopo Naughty Dog rilascia The Last of Us part 2, un seguito molto atteso che ha provocato tonnellate di critiche tra i giocatori maschi bianchi per le tematiche di genere (sic) espresse all’interno della trama, valutata da molti inferiore rispetto a quella del precedente.

Al di là dei discorsi ideologici, è davvero così? La risposta è “sì, ma”. Il perfetto bilanciamento tra costruzione narrativa e gameplay presente nel primo episodio non viene replicato nel secondo. Giocando si ha la sensazione che avrebbero potuto sfrondare una manciata di ore e, in alcuni momenti, subentra una lieve noia perché alcuni “quadri” sono ripetitivi così come il gameplay che, sebbene più vivace, non aggiunge molto all’esperienza del precedente.

C’è però un elemento in The Last Of Us part 2 che lo rende un’esperienza unica e innovativa all’interno del suo genere e riguarda l’uso narrativo del gameplay. Questo videogioco è una storia di vendetta: c’è un personaggio buono, Ellie, che parte per Seattle alla ricerca di un personaggio cattivo, Abbie. O meglio, per metà gioco questo è il convincimento del videogiocatore perché a metà della storia si smette di interpretare il buono e ci si impersona nel cattivo.

In The Last Of Us part 2 ci si trova quindi davanti a un doppio narratore interno, che frantuma le nostre certezze sul giusto e sullo sbagliato che avevamo maturato nel capitolo precedente. Questo esperimento porta alla costruzione di una storia forse meno compatta rispetto al primo videogioco della serie, ma l’esperienza immersiva è potenziata.

Perché i buoni non esistono e Naughty Dog, anziché mettere in scena questo concetto attraverso delle cutscene, lo fa sperimentare sulla pelle del videogiocatore.

E per la seconda volta avvicina il videogame all’oggetto culturale.

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