Torino è una città piena di cicatrici prodotte tra gli anni Settanta e Ottanta in mezzo a conflitti anche violenti. Oggi ci sono dei vinti e dei vincitori e la storia di quel periodo storico la raccontano spesso i secondi: le istituzioni che hanno sconfitto la lotta proletaria armata.
Città sommersa è il prodotto di “un atto di interesse” di Marta Barone nei confronti del padre Leonardo, condannato negli anni ottanta per partecipazione a banda armata e morto nel 2011. Mentre esplora la biografia frammentata del padre (che merita un approfondimento a parte), l’autrice ricostruisce una Torino degli Anni di Piombo molto più sfaccettata del ricordo che molti abitanti di questa città hanno ereditato e accettato.
Ovviamente il libro è molto più di una ricostruzione storica. Si potrebbe infatti dire che inciampa nella storia recente soprattutto per una contingenza emotiva. E questa è la sua forza rispetto ai saggi critici che affrontano quegli anni.
In questo articolo trovate due passaggi che smitizzano i “vincitori”.
La FIAT che spiava i suoi operai
Leonardo Barone è stato un militante del Partito Comunista d’Italia vissuto a Torino negli Anni Settanta. Quindi sullo sfondo della sua biografia c’è anche la storia della FIAT, costellata da atteggiamenti antisindacali come lo spionaggio, che spesso non vengono adeguatamente rimarcati.
Un giorno dell’agosto 1971 […] un procuratore scoprì centocinquantamila schede sulle “qualità morali” dei dipendenti e degli aspiranti tali della Fabbrica dalla fine degli anni quaranta in poi, redatte da un’efficientissima e gigantesca rete di spionaggio interna. “C.C.: fino a poco tempo fa (dicembre 1949) suonava il flauto nella Chiesa Parrocchiale di M.C:” (Annotazione successiva, gennaio 1950: “…non risulta accertato presso la Chiesa M.C. che il nominato suonasse il flauto, risulta però che tutti i rami della famiglia, ivi compreso il C. sono di tendenza comunista.)” […] “R.I. (1963)… è simpatizzante del Pci… Reputazione: cattiva, è ritenuto dall’opinione pubblica un omosessuale.”
Eccetera
Marta Barone, Città Sommersa, pp. 125-26
Le torture in carcere e la contraddizione del sistema dei pentiti
Quando si parla di Anni di Piombo emerge quasi sempre una dialettica dei buoni, le forze dell’ordine, contro i cattivi, i terroristi. Eppure non è andata così.
Il comitato contro la repressione era ancora in piena attività, soprattutto adesso che, dopo il caso Dozier (il generale americano rapito dalle Br e liberato anche per informazioni estorte ai terroristi con la violenza), alcune torture erano diventate di dominio pubblico – i manganelli nelle vagine, l’acqua e sale, i colpi ai genitali, i capezzoli tirati con le pinze, il denudamento e l’umiliazione, le teste gettate nell’acqua, le simulazioni di annegamento, le botte alternate alle domande melliflue. C’era un funzionario di polizia che veniva chiamato De Tormentis.
Però c’erano anche delle ambiguità, nel comitato e non soltanto.
Con l’arresto nella piazza vicino a casa mia di Patrizio P., il capocolonna delle Br che accettàò di collaborare con gli inquirenti, era cominciata la stagione dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”. Il fatto di poter ottenere sconti di pena portò un gran numero di grandi e piccoli arrestati a parlare, a indicare covi, a fare nomi, a spiegare dinamiche che fino a quel momento erano rimaste imperscrutabili. […]
[Roberto Celauro], che aveva ucciso, scontò meno anni, per esempio, di una ragazza che non aveva nemmeno mai preso in mano una pistola – era questo che i critici contestavano e trovavano aberrante, e qualcosa di aberrante in effetti c’era.
Marta Barone, Città Sommersa, pp. 274-75.